Multiculturalismo e cittadinanza, un commento a “The Immoralist”

Nel suo ottimo e interessante post “The Immoralist” affronta in maniera articolata una questione di cui si è discusso molto sulle prime pagine del Corriere della Sera degli ultimi giorni (ad es. qui, qui, e qui) quella sulla concessione della cittadinanza agli stranieri, e in particolare agli islamici. Egli conclude così:

Nell’ottica liberale il primo passo è piccolo ma esigente: non si promette l’integrazione ma solo il rispetto, l’eguale rispetto promesso e preteso. Progetti di conquista silenziosa o di penetrazione territoriale e politica che mirano alla disgregazione o al predominio non possono essere accolti (noi stessi abbiamo praticato questa appropriazione indebita, ma non per questo dobbiamo ora subirla). Non so se ci sia un simile progetto, ma per parte nostra deve essere chiaro che non siamo disposti a tollerarlo. E porre delle condizioni alla cittadinanza è uno di questi modi: questa di per sé non produce cittadini liberali, ma bisogna essere liberali per essere cittadini di uno stato liberale.

(Corsivo mio)

La questione mi sembra più complicata. Da un lato, anche se l’accettazione dei principi liberali fosse una pretesa appropriata quale vincolo all’ingresso di nuovi cittadini (ma non è detto che sia così, vedi sotto), risulta una pretesa eccessiva per coloro che nascono cittadini di uno stato. Infatti alcuni cittadini italiani possono rifiutare i principi liberali senza per questo essere privati della cittadinanza (e dei diritti che ne conseguono, incluso quello di “godere” di un certo tipo di processo e di un certo tipo di pene in caso di comportamenti individuali che oltre a violare tali principi si configurano come reati a tutti gli effetti). In altre parole: le democrazie possono tollerare minoranze intolleranti se non costituiscono un pericolo concreto (Rawls – tolleranza verso l’intollerante), e c’è del “buon senso” democratico dell’inclusione sociale di tali gruppi sperando nella loro “redenzione” (ne parla Bobbio). Ad esempio il partito comunista in Italia non è mai stato reso illegale, oppure si pensi ad alcune posizioni della Lega Lombarnda, difficilmente qualificabili come “liberali”. In soldoni, escludere i non liberali della cittadinanza – anche ne senso più ampio di “liberale” di cui parla Rawls – sembra troppo rigido anche rispetto alle pratiche democratiche consolidate. Se si vuole invocare tale criterio per l’inclusione degli stranieri allora bisogna anche, senza ipocrisia, riconoscere che si tratta di un criterio che non viene (a mio avviso giustamente) applicato a coloro che nascono italiani.

Dall’altro la questione sul criterio di entrata per i nuovi cittadini, sia esso un test volto a verificare l’accettazione dei principi liberali o di qualsiasi altro criterio (es. compatibilità con la “cultura” locale, produttività economica, etc.). Un utile spunto di riflessione proviene da un intervento del filosofo californiano Richard Arneson, che mi è capitato di sentire a una conferenza. Nell’interloquire con un ricercatore che aveva presentato una ricerca sul tema, Arneson ha affermato che la natura del diritto di uno straniero relativamente all’ingresso e alla cittadinanza in uno stato diverso (nel quale, poniamo, vorrebbe recarsi a lavorare) non può prescindendere interamente dalla questione più ampia della giustizia globale. Se uno stato non ha obblighi di giustizia verso gli stranieri (in quanto, poniamo, non esistono obblighi di questo tipo, oppure esistono ma lo stato li ha già “soddisfatti” ad esempio devolvendo il 10% del proprio PIL in aiuti umanitari), allora tale stato può scegliere (democraticamente) qualsiasi criterio di ingresso(es. accetto solo i cittadini di religione buddista, o solo donne, in quanto gruppi sociali meno tendenti ai conflitti). (Nota: una volta divenuti cittadini tali individui sarebbero soggetti alle stesse norme – meno restrittive – che vincolano i cittadini, e quindi gli individui in questione potrebbero cambiare religione o sesso). Ma se uno stato ha obblighi di giustizia verso alcuni gruppi di stranieri (in quanto – ad esempio – contribuisce a un ordine mondiale che riduce alla fame il loro paese, come sostiene Thomas Pogge) allora la questione è assai diversa, e uno stato non può considerarsi del tutto libero (moralmente parlando) di accettare o respingere chi vuole, in base a criteri decisi sulla base del proprio interesse nazionale (democraticamente definito).

In conclusione,

1) il test di “compatibilità con/fedeltà verso i principi liberali” implica un’assimetria di trattamento tra cittadini e aspiranti cittadini

2) se e in quale misura il rispetto di tali norme costituisca un legittimo criterio di ingresso nella cittadinanza di un paese (e quindi di acquisizione di ulteriori diritti) dipende anche dagli obblighi di giustizia di quel paese nei confronti del resto del mondo.

La questione appare dunque assai complicata.

Published in: on 9 gennaio 2010 at 12:50 AM  Comments (1)  
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